CHE COSA È L'ORDINE MARTINISTA UNIVERSALE - L'Ordine Martinista Universale è, secondo quanto afferma lo statuto vigente, "una libera associazione iniziatica di uomini e donne desiderosi del proprio perfezionamento interiore da perseguire attraverso lo studio dei rapporti intercorrenti fra Dio, l'Uomo e la natura; essi si impegnano ad usare a fin di bene il frutto delle conoscenze così acquisite trasmettendo le stesse, secondo le regole dell'Ordine, a chi, dimostrandosene idoneo, le desideri per lo stesso fine". L'O.M.U. non è una società segreta.

 Nell'O.M.U. si entra attraverso una cerimonia di iniziazione. Senza aver ricevuto l'iniziazione non si può prendere parte ai lavori martinisti. L'Ordine non pone limiti alla ricerca e allo studio, né opera distinzioni di etnia, di genere, di religione, di ideali sociali, di censo, di cultura.E' strutturato in due sezioni: la exoterica e la esoterica.

 Alla sezione exoterica appartiene il grado di Associato incognito (primo grado).

 Alla sezione esoterica appartengono i due gradi successivi (Iniziato Incognito, secondo grado e Superiore Incognito, terzo grado).

 Alcuni Superiori Incogniti, dotati di valenza iniziatica osiridea, indipendentemente dal sesso nel quale si sono incarnati, acquisiscono, attraverso un apposito rito di consacrazione, il potere di trasmettere l'iniziazione martinista e prendono il nome di Superiori Incogniti Iniziatori.
 

 Ad ognuno dei gradi si accede attraverso una cerimonia di iniziazione.

 Con il grado di Associato, il martinista (che cinge un cordone nero di fibra vegetale) riceve un rituale giornaliero che lo pone in catena con i fratelli. Trovandosi nella sezione exoterica dell'Ordine, egli ha la possibilità di valutare in pieno se l'Ordine risponde alle sue esigenze di crescita spirituale. L'Associato partecipa, se vuole, a tutti i lavori rituali comuni relativi al suo grado.

 La cadenza con la quale si svolgono i lavori di gruppo può essere settimanale, o quindicinale, o mensile, o varia, secondo quanto decide il capo del gruppo che, di norma, è un Superiore Incognito Iniziatore, ma che può essere anche un Superiore Incognito.

 Attraverso i libri del suo grado, che l'Ordine gli fornisce, l'Associato ha la possibilità di approfondire i suoi studi e di orientarsi per capire quale sia, fra le tante praticabili, la strada che gli è più congeniale.

 Con il grado di Iniziato, il martinista (che cinge un cordone rosso di fibra vegetale) entra appieno nella sezione esoterica dell'Ordine e partecipa, se vuole, sia ai lavori rituali comuni relativi al suo grado, sia a quelli relativi al grado di Associato. Oltre alla rituaria giornaliera, egli intraprenderà anche una rituaria lunare, connessa con le fasi del novilunio e del plenilunio. Anche in questo caso l'Ordine mette a disposizione i suoi libri.

 Con il grado di Superiore Incognito (che è un grado sacerdotale), il martinista (che cinge un cordone bianco) raggiunge il massimo delle sue possibilità operative. Oltre alla rituaria giornaliera e a quella lunare, egli intraprende una rituaria solare, connessa con i due solstizi e con i due equinozi. Attraverso i libro relativi al grado, il Superiore Incognito deve approfondire lo studio e la pratica della Cabala. Il Superiore Incognito partecipa, se vuole, sia ai lavori rituali comuni relativi al suo grado, sia a quelli relativi ai due gradi inferiori. Il Superiore Incognito Iniziatore sta al Superiore Incognito come il vescovo sta al prete: entrambi hanno la potestà sacerdotale, ma soltanto il primo può iniziare altri martinisti fino al terzo grado dell'Ordine. Anche i Superiori Incogniti Iniziatori cingono un cordone bianco.

 A capo dell'O.M.U. è un Gran Maestro, scelto tra i Superiori Incogniti Iniziatori e da essi eletto a vita.

 È il martinista che, sollecito del proprio sviluppo, chiede il passaggio da un grado all'altro. A nessuno è dato di forzare la volontà del singolo.

 Al suo ingresso nell'Ordine, fin dal grado di Associato, il martinista assume un nome iniziatico, a sua scelta. Il nome può corrispondere a un personaggio mitologico, a una figura biblica o di altra tradizione religiosa, a una virtù da realizzare, oppure essere lo stesso nome ricevuto alla nascita. Il martinista che non voglia scegliere riceverà il nome iniziatico dall'Iniziatore.

 L'Iniziatore è capo a vita del suo gruppo, ma può abdicare.

 Preminente, nell'O.M.U., non è il rapporto del singolo con il gruppo, ma il rapporto privilegiato che lega il singolo all'Iniziatore.

 Condizioni essenziali per entrare nell'Ordine sono il compimento del 21° anno di età, irreprensibile condotta morale e determinazione a perseguire con ogni sforzo la ricerca della verità.

 Secondo lo statuto vigente "la negligenza e la cattiva interpretazione dei canoni che regolano l'Ordine, una volta accertate, comportano, come unica soluzione, l'uscita dalla catena fraterna". Tra i canoni morali non scritti c'è quello di non rivelare a persone estranee all'Ordine la qualifica martinista dei fratelli. Il martinista, in questo ambito, può parlare soltanto di sé ed è libero di farlo, quantunque con la necessaria prudenza per non esporsi al rischio di facili incomprensioni.

 L'O.M.U. stampa un bollettino che viene inviato a tutti i membri e che contiene articoli sulla docetica e notizie sulle attività dell'Ordine. Tutti i martinisti, quale che sia il loro grado, possono offrire il loro contributo di idee. Responsabile della scelta dei lavori da pubblicare è il Gran Maestro.

 La quota da versare come contributo annuale per rimborso spese è di 30 euro l'anno. Altre spese non sono contemplate, tranne quelle di gestione comune di locali in fitto dove eventualmente i gruppi martinisti decidano di svolgere i loro lavori periodici.

 Storicamente il Martinismo nasce nella metà del XVIII secolo. Lo fonda, come ordine massonico, Martinez de Pasqually e gli dà una connotazione specificamente magica e operativa. Louis Claude de Saint Martin, detto "il Filosofo incognito", discepolo di Martinez, gli dà, a sua volta, una connotazione religiosa e fideistica. Queste due anime convivono nell'Ordine Martinista Universale e consentono agli affiliati le più ampie possibilità di scelta per lo sviluppo individuale. Nessun martinista, quale che sia il suo grado, può essere costretto a compiere rituarie martiniste contro la sua volontà, né sono richieste abiure da fedi religiose o credo politici. Il martinista deve sentirsi un uomo completamente libero nelle sue scelte, quantunque sottoposto alle regole della gerarchia. L'O.M.U. attualmente non ha alcun rapporto con le varie obbedienze massoniche, in Italia e all'estero, ma, in nome dei suoi princìpi pluralistici, accetta i massoni tra le sue file.

 


 

Un Piano di Lavoro Iniziatico

 Le dieci conversazioni che seguono, introdotte dall'immortale "If" dell'iniziato Kipling, sono parte del lavoro da me svolto in un anno per le logge martiniste "Aloysius" e "Re David" di Roma. I temi trattati hanno come unico fine la spoliazione, pietra angolare dell'iter martinista e presupposto dello sviluppo iniziatico. Ritengo - in ciò confortato dal parere disinteressato e dalle esortazioni di alcuni carissimi amici - che questo lavoro possa essere di qualche utilità sia per chi abbia intrapreso il cammino martinista, sia per chi si accinga a farlo, sia per tutti gli spiriti pensosi di se stessi.

Fabrizio Mariani.
(Giovanni Aniel S.I.I. - Gran Maestro dell'Ordine dal 2/12/1984 al 20/10/2002)


"Se" di kipling
(ovvero: un programma di lavoro)

Se puoi conservare la calma quando tutti intorno a te
la stanno perdendo e te ne danno la colpa;

se puoi aver fiducia in te quando tutti di te dubitano,

e trovare anche attenuanti al loro dubbio;

se puoi aspettare e non stancarti di aspettare;

o, essendo oggetto di menzogne, non mischiarti in menzogne;

o, essendo odiato, non abbandonarti all'odio,

e nondimeno non apparir troppo buono, né parlare troppo saggio;

se puoi sognare e non lasciarti dominare dai sogni;

se puoi pensare e non far dei pensieri i tuoi scopi;

se puoi incontrarti col trionfo e col disastro

e trattare allo stesso modo questi due impostori;

se puoi sopportare di udire la verità detta da te,

travisata da furfanti per farne trappole per gli sciocchi;

o veder distrutte le cose cui dedicasti la vita,

e chinarti a ricostruirle con logori arnesi;

se puoi fare un mucchio di tutte le tue vincite

e rischiarle d'un colpo a testa o croce,

e perdere, e ricominciare daccapo,

e mai mormorare una parola della tua perdita;

se puoi forzare cuore e nervi e muscoli

a servirti ancora a lungo dopo che sono esausti,

e così tener duro, anche se non vi sia altro in te

se non la volontà che comanda ad essi di resistere;

se puoi parlare alle folle e mantenere la tua virtù

o accompagnarti ai re senza perdere il senso umano;

se né i nemici né gli amici più cari possono ferirti;

se tutti gli uomini contano per te, ma nessuno troppo;

se puoi colmare l'inesorabile minuto

con sessanta secondi di lavoro compiuto,

tua è la terra e tutto ciò che in essa esiste,

e, ciò che più conta, tu sarai un uomo, figlio mio.


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MALKUT (Regno)

 

 "Tu sei il Brahman Supremo, la Dimora ultima, il Purificatore sovrano, la Verità assoluta e l'eterna Persona Divina. Tu sei Dio, l'Essere primordiale, originale ed assoluto. Tu sei il Non-nato e la Bellezza che tutto pervade": così, nella Bhagavad-gita, parla Arjuna al Signore Krishna, quando questi gli si rivela. Teniamo presenti alcuni punti di questa descrizione: purificazione, verità e bellezza.

 Nel secondo capitolo del suo "Ecce Homo", Louis Claude de Saint-Martin afferma: "Tutte le volte che l'uomo contemplerà i suoi rapporti con Dio, ritroverà in sé gli elementi indissolubili della sua essenza originale ed i naturali indizi della sua gloriosa destinazione". Se stabiliamo un collegamento tra i brani tratti da queste due opere, così lontane nel tempo e nello spazio, fruttificate in terreni culturali così diversi, scopriamo che, in realtà, i principi di base per reintegrarci, cioè per avviarci sul cammino del Risveglio, sono sempre identici: non si varca la Porta del Domani senza una ricerca costante di purificazione, di verità, di bellezza. Ricerca, dico, prima ancora di acquisizione, perché l'importante è cercare più che aver trovato.

 E mentre avvia il suo dialogo, squisitamente personale ed irripetibile, con Dio, l'uomo deve progressivamente affinare i suoi strumenti, allo scopo di renderli sempre più atti alla penetrazione ed idonei a riflettere la luce che viene dall'Alto. E' futile aspettare di aver conseguito la perfezione, prima di parlare con Dio: Egli già sa ciò di cui abbisognamo e, se parliamo, è per consentire a noi stessi di chiarirci le idee e di approfondire il nostro approccio al Reale.

 Ma come si fa ad affinare gli strumenti ? Non c'è che la via dell'amore reciproco, della tolleranza e della carità.

 Un'altra citazione, a questo punto, illuminerà la strada della nostra ricerca, che si svolge, giova ricordarlo, in un ambito iniziatico, grazie ad un crisma iniziatico. Nel sedicesimo capitolo della sua "Imitazione di Cristo", Tommaso di Kempis scrive, sotto il titolo "Comprensione fraterna": "Dio ha voluto che sia così, perché impariamo a portare gli uni i pesi degli altri. Nessuno è senza difetto, nessuno senza carico, nessuno basta a sé, nessuno per sé è sapiente a sufficienza: ma bisogna che ci compatiamo, che ci consoliamo insieme, e così ci aiutiamo, ci istruiamo e correggiamo. E' all'occasione di qualche contrarietà che si vede bene di quanta virtù sia un uomo. Infatti non sono le occasioni che fanno l'uomo fragile, ma semplicemente mostrano quello che è". In queste parole è la chiave - una delle chiavi - per vivere armonicamente il nostro "Ecce quam bonum": nessuno è senza difetti e nessuno di noi deve mostrare intolleranza o fastidio nei confronti dei fratelli che si mostrano in errore. Occorre sentire il cuore: il rapporto che si instaura in un ambito fraterno deve essere scevro da ogni riserva mentale, cioè limpido e chiaro. Tolleranza, quindi, non significa dissennata indulgenza, ma sforzo di comprendere le ragioni dell'altro ed impegno per aiutarlo a correggersi, soltanto dopo che egli stesso avrà visto l'errore che noi gli attribuiamo. E' questo l'unico sistema valido per avvicinarsi gli uni agli altri, per essere contigui e solidali, per trascendere a poco a poco i limiti entro i quali la nostra individualità ci rinserra. Via via che va avanti questo processo di avvicinamento agli altri, procede, di pari passo, il nostro individuale approssimarsi alla mèta della nostra unione con l'Assoluto, a quella destinazione ultima - così vicina e lontana - che contempla l'uscita dal ciclo delle incarnazioni per fare ingresso in un'onda di vita più vasta. Bisogna progressivamente avere ragione degli elementi che sono in noi che di ognuno di noi fanno un'unità: sbarazzarsi, insomma, della Terra, e poi dell'Acqua, e poi dell'Aria ed infine del Fuoco che sono in noi, che sono noi, per essere restituiti integri alla matrice primigenia, donde inconsapevoli partimmo.


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YESOD (Fondamento)

 Una favola antica.

 Tre uomini spaccano pietre in un luogo dove sorgerà una cattedrale. Passa un viandante e chiede al primo: "Cosa fai tu ?" "Non lo vedi ? - risponde. - Spacco le pietre". Il viandante chiede al secondo: "E tu ?" Risposta: "Mi procuro di che vivere per me e per la mia famiglia". Infine il terzo. "E tu, cosa fai ?" chiede il viandante. "Io - è la risposta - sto costruendo una cattedrale".

 Qui cogliamo tre dei tanti livelli di percezione della propria realtà interiore, dal più basso, relativo ad un ambito circoscritto all'individuo, direi addirittura alla sua fisicità, all'intermedio, dove il discorso individuale spazia ad allargarsi oltre l'individuo fino agli affetti più vicini, all'ultimo livello, quello dell'uomo che ha colto il fine della propria opera, che sta spaccando le pietre, che lavora per sé e per la sua famiglia, ma che conserva netto, davanti agli occhi dello spirito, l'obiettivo altissimo e remoto per cui opera. E', in altre parole, un viaggio dal "personale" all'"impersonale".

 Difficilissimo viaggio. Gli ostacoli, rappresentati dalla fisicità, appaiono insormontabili. Pensate: la nostra fisicità, la corporeità, è talmente densa, talmente spessa che riesce nella maggior parte dei casi e per tutta la durata dell'incarnazione, a far dimenticare allo spirito imprigionato quale sia la sua vera natura, quale il mondo da dove viene, quale il mondo dove va. I "Prigioni" di Michelangelo, fusi nella materia informe che li rinserra e chiude da ogni parte, possono dare appena una pallida idea della prigione che la mortale corporeità rappresenta per lo spirito immortale. La liberazione appare impossibile, anche se se ne possono percepire i segnali quando il corpo dorme ed i veicoli sottili dello spirito si librano nella regione sterminata dei sogni, testimonianze, sia pure attraverso differenti nature, di una realtà alla quale accediamo e che non è la realtà ordinaria di tutti i giorni.

 Ciò detto, non voglio fare del corpo una sorta di matrice di tutti i mali possibili. Io credo nel corpo, non fosse altro perché lo abbiamo, e credo nelle possibilità che esso può offrire allo spirito di svilupparsi armoniosamente e con gradualità. Occorre, però, stabilire un rapporto armonico con il corpo.

 Il discorso è antico come il mondo: gli alchimisti sostengono che bisogna spiritualizzare il corpo e corporeizzare lo spirito. Una lettura superficiale di questo assioma ermetico ci porta già ad una conclusione di grande rilievo: bisogna cioè agire in modo che corpo e spirito convivano armoniosamente, in una luce di consapevolezza, ispirati, nella loro azione, da valori comuni, che cioè siano pertinenti all'uno ed all'altro e dall'uno e dall'altro recepibili. Conseguire il massimo risultato con il minimo sforzo è uno di questi valori; cercare ciò che globalmente fa bene e rifuggire da ciò che globalmente fa male è un altro di questi valori. E via elencando, senza compromessi. Tanto per fare un esempio: se una cosa piace al corpo, ma lascia inquieto lo spirito, non è bene e non giova; lo stesso dicasi di una cosa che piace allo spirito, ma lascia inquieto il corpo. La serenità è una splendida cartina di tornasole per dimostrare l'equilibrio perfetto raggiunto tra fisicità e spiritualità.

 Per tentare di conseguire questo obiettivo c'è una tecnica che può essere sperimentata. Abbiamo visto che durante il sonno i legami del corpo tendono ad essere meno stretti. Allora: prima di prendere sonno, distesi sul letto, si rilassino tutti i muscoli e si cerchi di raggiungere uno stato di quiete interiore. A quel punto, rivolta una forte invocazione all'Angelo, si realizzi che stiamo per entrare nel sonno, cioè in uno stato di "veglia" dello spirito, il quale avrà finalmente l'occasione di uscire dai suoi legami. Si realizzi, parimenti, che l'Angelo vigila, luminosissimo, in piedi accanto al nostro letto. Entriamo così, per ora, nel sonno. L'indomani, appena desti, cerchiamo di ricordare i sogni fatti, di fermare le sensazioni che essi hanno impresso in noi, di interpretarli. Quelli che ci parranno più significativi, li appunteremo in un quaderno. Subito dopo realizziamo la percezione che, passata la notte, stiamo entrando nelle tenebre dell'esteriorità, che le porte della nostra prigione corporea si stanno chiudendo su noi. Cerchiamo di vivere tutta la giornata con questa consapevolezza e, al tempo stesso, avviamo vari tentativi di uscire dal buio diurno, di liberarci, di dare voce allo spirito, di non identificarci con il corpo, o, almeno, di non identificarci soltanto con
esso.


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HOD (Gloria)

 Noi siamo immortali. La nostra vita è un fluire ininterrotto verso orizzonti sempre più vasti, verso una capacità di percezione sempre più acuta, verso un'espansione della coscienza sempre meno angusta. Nel momento dell'individuazione abbiamo innescato un processo che non avrà mai fine, parte di un disegno del quale non riusciamo ad immaginare nemmeno il più piccolo dettaglio. Abbiamo conseguito la percezione di mondi che si interpenetrano l'uno nell'altro, il fisico, l'emotivo, il mentale, lo spirituale, ed altri ne esistono dei quali, al nostro attuale livello di evoluzione, ci è preclusa la conoscenza; in questi mondi ci muoviamo consapevolmente (quando decidiamo di essere consapevoli): con il corpo fisico nel mondo fisico, con le emozioni nel mondo del desiderio o astrale, con la mente nel mentale, con lo spirito nello spirituale. Viviamo contemporaneamente su tutti questi livelli ed è questo con-vivere che, nella maggior parte degli uomini, si trasforma in dramma: pochissimi, anche tra coloro che si dicono iniziati, hanno imparato la suprema legge dell'armonia, di quell'amore che deve accendersi anche all'interno di noi stessi e che è destinato a muovere il sole e le altre stelle. Se non c'è armonia, la condizione umana è irta di contrasti e si snoda attraverso la paura, l'ansia e l'angoscia, tutte figlie della fretta di vivere.

 Ha fretta di vivere chi crede di avere soltanto una vita da spendere e, di conseguenza, teme di non riuscire a realizzare tutti i disegni che si è prefisso. Deve farsi strada in noi la consapevolezza, sorretta dall'esperienza, che questa fretta è pura follia, che il tempo a nostra disposizione è illimitato, che di vita in vita noi contribuiamo alla costruzione di qualcosa che ci trascende e ci appartiene ad un tempo. Ogni volta che ci incarniamo riprendiamo un filo che ha continuato a snodarsi anche oltre la frontiera che separa la vita dalla morte; un filo che continua ad intrecciarsi con la persone che amiamo e che ci sono care, nonché con quelle che non abbiamo saputo amare e con le quali è rimasto, in sospeso, un debito karmico da risolvere. La nostra vita è una continua occasione di rigenerazione.

 Gli ostacoli non mancano. Il principale è, come già detto, la fretta. Un altro è rappresentato dall'illusione. Mentre la fisica subatomica comincia a delineare un mondo dove tutto è Uno e ne prefigura i postulati, la maggior parte di noi continua ad alimentare l'illusione della separatività. E non solo nei confronti degli altri, il che è comprensibile, ma anche nei confronti di se stessi, sì che, nonostante quello che continuamente ci ripetiamo all'interno delle nostre scuole iniziatiche, la maggior parte di noi è sovente dimentica di essere uno spirito che anima un corpo - vari corpi -, che se ne veste e li usa finché gli occorre; e allora si identifica con il corpo fisico e fa una sola cosa del suo inevitabile decadimento con il decadimento del suo sé più profondo. Questo stato di coscienza, non solo è un'illusione dalla quale guarire, ma è anche un pericolo: sullo spirito, infatti, non possono non riflettersi, condizionandone lo sviluppo e rallentandolo, le impressioni profonde subite dai cosiddetti corpi inferiori. Un'abitudine radicata a pensare in un certo modo, idee cristallizzate ed inamovibili, pregiudizi e via dicendo sono, per così dire, blocchi interni che, se alimentati di continuo, imprimono la loro matrice sullo spirito, il quale, una volta disincarnato, incontrerà maggiori resistenze nella sua marcia, peraltro inarrestabile, verso la liberazione. Questo e non altro è l'inferno che ci potrà toccare dopo la morte se non avremo imparato, in vita, ad essere agili, leggeri, disponibili, pronti a rivedere tutto ed a sottoporlo, sempre di nuovo, al vaglio della ragione e dell'esperienza. E' in questo senso che va intesa quella frase bellissima contenuta nel libro "illusioni" di Bach: "Il peccato capitale consiste nel limitare l'Essere: non lo commettere".

 Dobbiamo quindi fare del tutto per evitare, con l'inferno, di rallentare la nostra evoluzione, tanto più che non sembra ci siano richieste operazioni che non siano alla nostra portata. La vita va intesa come danza, come canto, come levità, qualunque cosa ci possa accadere di grave e di brutto, perché, in realtà, nulla di tutto quello che ci sfiora, nulla di tutto quello che ci tocca, ci appartiene più di tanto. Un approccio gioioso all'esistenza, una disponibilità infinita a cambiare, un correre costantemente fuori delle mura della nostra prigione a cercare qualcosa, sono i migliori passaporti per quel che ci attende oltre l'orizzonte.


7
NETZAH (Vittoria)

 

 "Immortale, autogeno, onnisciente, privo di desideri, esente da difetti e ripieno di vita": così nell'Atharvaveda viene definito l'Atman, cioè il Sé trascendente che alberga in ognuno di noi. Si dice anche che "chi conosce lui, l'Atman sapiente, non ha più paura della morte e non invecchia". Una collezione di frasi come queste appartiene al patrimonio di chiunque pratichi gli studi esoterici ed i concetti sono talmente ripetitivi che talvolta si svuotano del loro significato originario e profondo. (Anche perché, a forza di leggere, la nostra attenzione e la nostra tensione vengono meno).

 Insomma: è il "conosci te stesso" del tempio di Delfi, una frase che ci viene continuamente ripetuta, sia dagli istruttori, sia da noi stessi e che, anche per questo, sembra essersi svuotata di significato. Eppure la conversione, intesa come rovesciamento, è indispensabile per chi segue la via iniziatica. Ed è indispensabile che questo rovesciamento sia reale, piuttosto che un fallace convincimento.

 Vediamo dunque come è possibile tentare di conoscere se stessi. Si parte da un presupposto evidente ed inconfutabile: ognuno di noi è incarnato in una forma specifica e distinta dalle altre. Questo discorso vale sia per il corpo visibile, sia per i corpi invisibili: notiamo infatti che, come differiscono i nostri corpi gli uni dagli altri, allo stesso modo differiscono le nostre mentalità, il nostro porci in relazione con il mondo dei sentimenti e dei desideri e così via. A questo punto, piuttosto che sforzarci a priori di capire "chi siamo", cerchiamo prima di delineare chi, in questa attuale incarnazione, "non possiamo essere", sia sul piano fisico, sia sugli altri piani.

 Un individuo, che appena tenti questo genere di studio, si accorge che, per quanti sforzi faccia, non potrà mai diventare un centometrista da Olimpiade, perché i suoi muscoli e la sua struttura fisica non glielo consentono, né un pilota d'aereo, perché la sua vista ed il suo udito non sono eccellenti, né un chirurgo, perché le sue mani sono sovente agitate da un tremito, né il guardiano di un canile, perché soffre di un'incurabile allergia al pelo dei cani. E via enumerando. Questa grossolana osservazione può essere estesa alla sfera emotivo-sentimentale ed a quella mentale: la frase "è più forte di me" sovente, sì, nasconde la pigrizia nell'affrontare una realtà sgradevole, ma in qualche caso rispecchia la realtà di qualcuno che, in piena obiettività, ha preso coscienza dei suoi limiti di uomo. Limiti che, naturalmente, possono essere continuamente allargati e spostati un po' più in là, ma che non prescindono da una struttura globale di base, quale è quella che portiamo nel mondo (retaggio karmico, per chi ci crede) nel momento in cui affioriamo all'esistenza.

 Chi abbia fatto un'analisi del genere sui limiti dei suoi corpi (il visibile e gli invisibili) ha già circoscritto cospicuamente la sfera della sua indagine. Egli sa di essere venuto al mondo per realizzare un obiettivo servendosi esclusivamente di quegli specifici strumenti che sono peculiarmente suoi. Di conseguenza le cosiddette istruzioni per l'uso di quei corpi (che, lo ripeto, hanno limiti) non può che darsele da sé: questa consapevolezza è già un traguardo molto importante.

 Ed a questo punto, avendo io scoperto quale specie di uomo mi è impossibile di essere, l'indagine si circoscrive a ciò che posso diventare, partendo dagli elementi di cui dispongo. Per questa fase del lavoro occorre che l'io prenda coscienza, oltre che dei propri limiti, delle sue possibilità di realizzazione. Perché questo accada è necessario che l'armonia si instauri all'interno del campo di coscienza, cioè che le contraddizioni che ci animano, anziché comporsi al termine di un conflitto esasperante, imparino a convivere, allo stesso modo in cui convivono, all'interno di una famiglia armoniosamente costituita, persone diverse per provenienza spirituale, per obiettivi, per carattere, per età, per sesso. L'armonia all'interno di sé nasce dal principio dell'accettazione.

 Che cosa vuol dire ? Vuol dire essere consapevoli di far parte di un grande maccanismo evolutivo del quale nulla sappiamo, ma nel quale operiamo la nostra e l'altrui trasformazione; vuol dire aver capito, di disporre, a livello individuale, di un bagaglio di idee, di pulsioni, di tendenze che noi stessi abbiamo preparato per affrontare questa attuale incarnazione nel modo migliore, ai fini del nostro sviluppo; vuol dire rendersi conto che in principio è la nostra immortalità e che ogni cosa che ci capita - quando a quell'immortalità fa riferimento - è accidentale, fosse anche la più bella o la più brutta delle esperienze (e comunque, esperienza); vuol dire vivere intensamente l'attimo presente nella consapevolezza di una vita intesa come continua avventura, da un orizzonte all'altro; vuol dire camminare comunque, anche quando ti senti esausto, perché non sei tu che cammini, ma il dio che in te alberga e che questo vuole; vuol dire riconoscere nella finitezza, nei limiti e nei difetti degli altri, la propria finitezza, i propri limiti, i propri difetti e, di conseguenza, sentire gli altri realmente fratelli, piccoli, ciechi, a volte come noi disperati, ma divini, ancorché inconsapevoli, nel fondo della loro sostanza di uomini. Dimenticarsi di sé - dimenticarsi realmente di sé - vivendo nella gioia è il modo migliore per consentire a quel dio nascosto di splendere e di affermarsi nell'abbagliante realtà dell'IO SONO. Obiettivo da conseguire senza cercarlo.


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TIPHARET (Bellezza)

C'è, lungo il cammino iniziatico, un'insidia sottile che può trasformarsi in male incurabile. Poiché parliamo tanto di consapevolezza e di risveglio di quelle facoltà spirituali che possano consentirci un approccio con il nostro Sé transpersonale - cioè la scintilla divina che la Tradizione sostiene essere in ognuno di noi - è sempre incombente il pericolo di alimentare, sia pure su un altro livello di coscienza (quando e se ci arriviamo), tendenze egocentriche, che, per la loro stessa natura, ci spingono sempre più lontano dalla nostra meta. Queste tendenze, in sé, non sono male, perché sono alla base dell'istinto di sopravvivenza; ma può essere fuorviante l'uso che ne facciamo.

 La rinuncia all'io parziale, infatti, comporta realmente l'oblio di sé, almeno quando si opera su certi livelli: non è lecito, a quei livelli, darsi come obiettivo la realizzazione di una virtù purchessia, o la reintegrazione, o il servizio; dirò di più: non è lecito darsi alcun obiettivo. Qualsiasi obiettivo, infatti, che coscientemente ci si dia, nasce dall'elaborazione di un processo mentale che, ovviamente, tiene conto di determinate aspirazioni interiori: ma a quei livelli, quando facciamo funzionare la mente, perdiamo ancora una volta il contatto con la Realtà Una. Perché l'uomo possa aspirare alla libertà, la mente deve cessare di funzionare: questo è uno dei principali insegnamenti segreti di tutte le tradizioni religiose e di tutti i sistemi di filosofia esoterica. Ed è attraverso questo assioma ermetico che ci rendiamo conto del perché lo "scandalo" sia insorto ogni volta che qualche altissima incarnazione sia passata su questa terra per indicarci la Via. E' lo scandalo di Gesù, di Krishna, di Buddha, di Francesco d'Assisi, di Maestro Eckart e di tanti altri, conosciuti e ignoti che, attraverso la loro azione, hanno accelerato il processo di evoluzione dell'umanità.

 Noi siamo qui a parlarci ed a scambiarci istruzioni, esperienze e suggerimenti attraverso una struttura che tiene conto anche della gerarchia. Ma se di tutto questo abbiamo bisogno, se tutto questo, in qualche modo, ci risuona dentro e ci gratifica, ciò è perché non abbiamo ancora imparato a stare soli con noi stessi, cioè a convivere con il vuoto mentale che è il presupposto dell'Azione pura. Anche qui bisogna intenderci: il vuoto mentale non è assenza di pensieri - dire questo è una sciocchezza. Vuoto mentale significa abolire un meccanismo per lasciare che in noi irrompa qualche altra cosa che accenda in noi, fulmineo, il processo di individuazione. La cosiddetta mente discorsiva, infatti, è proprio l'ostacolo maggiore all'individuazione.

 A questo punto è chiaro che vanno bene tutti i giochi e tutte le tecniche attraverso le quali cerchiamo di rompere qualcosa dentro di noi: va bene lo studio dei Tarocchi, va bene l'Astrologia, va bene la storia della filosofia, va bene la fede, vanno bene le operazioni magiche. Va bene tutto, lo ripeto, a condizione che nulla di tutto ciò sia cultura, venata o no di sottile compiacimento. In realtà, lo studio dell'Astrologia non va fatto per indagare sulle influenze planetarie, o per individuare difetti personali da emendare: questi discorsi sono discorsi, per così dire, di facciata; lo studio dell'Astrologia, invece, attraverso alcuni suoi apparentemente improponibili assiomi, deve servire a provocare uno choc interiore, deve mettere in crisi la nostra capacità di raziocinio, anche la più ardita e disinibita, deve far baluginare all'interno di noi stessi le luci di un mondo alieno e inesplorato, farci percepire l'esistenza delle rive di un altro mare che con questa dimensione - nella quale ordinariamente ci moviamo e crediamo di essere - non hanno alcuna relazione se non quella capacità di percezione che può accendersi all'interno di noi. Laddove quel mondo alieno, quelle rive sono, in realtà, la nostra destinazione e la nostra origine, entrambe perdute di vista, dimenticate, nel momento in cui ci siamo incorporati. Quel mondo che crediamo alieno, quelle rive che crediamo altrove si fanno strada in noi attraverso certi sogni e, soprattutto, attraverso certe impressioni - non confrontabili con altre della vita cosiddetta di veglia - che quei sogni hanno prodotto. Determinati sogni ci aprono le porte dell'Altrove - che forse è la nostra dimora - e ci arricchiscono di emozioni e sensazioni completamente diverse dalle emozioni e dalle sensazioni che ci è dato di provare da svegli: e questa è una prova del nostro essere profondamente diversi da ciò che crediamo. Ecco: la nostra vita ordinaria di ogni giorno, il nostro essere presenti sempre e comunque, il nostro misurare e valutare sono fatti per il Mondo dell'Azione. Ma il Regno dei Cieli - che pure da qui prende le mosse - non può non essere un'altra cosa.


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GEBURHA (Forza/Coraggio)

 Noi siamo incarnati. Da un punto di vista occulto significa che il nostro spirito, dimorante nella sua Regione celeste, decise di tornare a fare esperienza nel mondo della Manifestazione. Discese; ed in base alla legge del Karma scelse, per incorporarsi, le condizioni più idonee, sia dal punto di vista psicologico, sia da quello ambientale, per la propria evoluzione.

 In base a questi principi - che sono, ovviamente, ipotesi di lavoro, ma che ognuno può studiare ed approfondire sì da trasformarli in esperienza diretta del proprio vissuto - ognuno di noi, quale che siano le circostanze nelle quali si trova a vivere, vive al meglio delle sue possibilità spirituali, tanto se è nato re, quanto se è nato in un tugurio, tanto se è ricco e bello, quanto se è povero e deforme. L'esperienza che io vivo è la mia esperienza, unica e specifica, della quale io posso far tesoro meglio di chiunque altro perché è la mia precipua. Quella che stiamo attualmente facendo è l'esperienza della Forma perché essere incarnati significa avere una forma, essere una forma.

 La forma è rigida. Che cosa significa ? Significa che la forma che abbiamo ci condiziona e ci vincola nelle nostre azioni, cioè nel karma che produciamo e che bruciamo mentre siamo nell'incarnazione. L'aspetto fisico, il carattere, la mentalità, la sensibilità, i meccanismi emotivi variano da uomo a uomo, anche cospicuamente; sono essi - ad un tempo - la materia sulla quale lavorare e gli strumenti attraverso i quali operare. Il lavoro consiste nella trasformazione di se stessi, ma, paradossalmente, prima di avviare qualsiasi processo di trasformazione bisogna accettarsi così come si è. Accettarsi, infatti, significa dar credito allo spirito di aver operato la scelta più giusta nel processo di incarnazione e significa, ad un tempo, riconoscere che in questa scelta lo spirito non ha fatto altro che adeguarsi ad una Necessità determinata dalle leggi karmiche, cioè dall'accumulo di situazioni poste in atto, in epoche precedenti, da altri io storici. "Quando il vento soffia, fatti canna" recita un adagio popolare: nel turbine che quotidianamente ognuno di noi vive è, questo adeguarsi all'imperiosità della forma, l'unico atteggiamento compatibile con la saggezza. Accettarsi è anche questo.

 Ma la forma, lo ripeto, è rigida. Attraverso essa possiamo leggere, come in un libro aperto, la nostra condizione spirituale e, con un po' di allenamento, anche quella altrui. La percezione del vario livello individuale di ognuno è leggibile attraverso una miriade di segni inequivocabili, che la psicologia ha individuato, ma soprattutto attraverso gli occhi, che non mentono mai.

 Per avviare questo processo conoscitivo per quanto riguarda se stessi, il lavoro è un po' più difficile. Come faccio infatti a conoscermi finché mi osservo da dentro ? Che ne sa del sole l'uomo che sia sempre vissuto all'interno della caverna ? Ebbene, in questo senso siamo tutti, chi più, chi meno, uomini della caverna. Come faccio ad osservarmi da fuori, come faccio ad uscire all'aperto ?

 Al cento per cento la cosa non è possibile: e viene in mente, a questo proposito, l'umanissima adesione di Gesù alla propria fisicità quando, per lunghi attimi, fu travolto dalla disperazione, prima dell'Orto di Getsemani, poi sulla croce. (E forse questo è stato il massimo tra i tanti insegnamenti che Gesù ci ha lasciato). Ma molto tuttavia in questa direzione si può fare.

 E qui torniamo, ancora una volta, al discorso della spersonalizzazione. L'approccio non può e non deve essere violento: il processo avviene attraverso piccoli segni costanti e, soprattutto, non tanto attraverso meditazioni più o meno intense, relative al proprio ambito spirituale, quanto attraverso il nostro essere attivi nella vita di tutti i giorni. Perché quello noi siamo realmente: uomini che vivono la vita di tutti i giorni. Allora occorre interrogarsi, dal di fuori, su apparenti minuzie quotidiane: l'adesione ad un'idea politica, per esempio, le opinioni sulla società, sul comportamento dei giovani, sulla famiglia, sul lavoro, sul futuro, individuale e collettivo; quanto di tutto questo è nostro - cioè sofferto da noi e variabile - e quanto è un'induzione che, promossa da altri, ha avuto facile presa sul nostro temperamento ? Lavorando costantemente in questa direzione si arriva, abbastanza presto, a percepire qualcosa di nuovo e di diverso dalla banalità quotidiana: è la percezione di una leggerezza che fiorisce all'interno e palpita in attesa di qualcosa. E' il preludio del Risveglio, il segnale che manifesta l'accendersi di una consapevolezza meno angusta, tesa verso orizzonti più luminosi, o, addirittura, dimentica dell'esistenza di qualsiasi orizzonte. E' in quella leggerezza, in quella fluidità, in quella spontaneità reale che, chi voglia, può entrare nello stato di Mag, minimo requisito per operare sui piani sottili. Allora, non prima. Ma tutto questo, per essere accettato, deve essere sperimentato personalmente. Questo discorso infatti, anch'esso, non è che un'ipotesi di lavoro.


4
CHESED (Grazia/Misericordia)

 Un ordine iniziatico come il nostro ha nella liturgia (come "Opera sulla Pietra", secondo l'accezione etimologica) uno dei punti di forza della sua asserita operatività; l'altro, ovviamente, è rappresentato dalla capacità, che individualmente ogni membro sprigiona, di espandere il campo della propria consapevolezza: senza questa espansione, sia detto per inciso, l'opera sulla pietra non si compie ed il rito si trasforma in vacua cerimonia.

 Ciò premesso, allo scopo sacrosanto di non adagiarsi mai sugli allori di conoscenze ormai acquisite (vere, o, più spesso, presunte che siano), è lecito - ma sarebbe da dire, doveroso - interrogarsi se le cose stiano realmente così.

 Vediamo. Il rito si articola attraverso una serie di gesti e di parole, fissati, per così dire, dalla Tradizione attraverso la quale sono stati tramandati: parole e gesti che non debbono essere cambiati, pena l'invalidazione del rito, o peggio. E' in questa continuità, in questa ripetitività il punto d'avvio del fatto liturgico. L'iniziato, poi, attraverso l'espansione della sua consapevolezza, riesce talvolta ad entrare in contatto con "qualcosa" che, nella maggior parte dei casi (quando non si tratti di mera illusione) è il conseguimento di un diverso e più alto stato di coscienza.

 A questo punto ci si può interrogare se questo conseguimento avviene grazie al rito (praticato, appunto, con consapevolezza), oppure se non basterebbe la consapevolezza, da sola, a provocare quel salto di livello. E questo è un interrogativo altamente stimolante perché pone in un'ottica di critica (ovviamente costruttiva, come sempre la critica ha da essere) il meccanismo stesso dell'iniziazione. La domanda, in parole brute, è questa: se uno che io chiamo profano riesce, attraverso determinate tecniche, ad ampliare il suo campo di coscienza e ad attingere un nuovo stato dell'essere, che senso ha questa distinzione che da sempre si fa tra mondo profano e mondo iniziatico ? E' ben vero che il fatto iniziatico a me può servire per conseguire uno stato che altri può raggiungere, per così dire, con le sue sole forze, ma perché la distinzione ?

 Ancora: è tanto difficile ipotizzare che certi riti - non dico tutti - costituiscano il ripetersi meccanico di parole e gesti che, se una significazione potevano avere in un certo ambito, nel nostro non l'hanno più ? Con il telecomando accendo a distanza il televisore: questa conoscenza, tramandata tra duemila anni, può non avere un senso per l'uomo che, fiducioso nel rito, volesse provocare l'accensione di un simulacro di televisore attraverso un simulacro di telecomando, magari sprovvisto anche dell'indispensabile pila elettrica: e - si badi - quell'uomo compirà tutti i gesti giusti, così come la tradizione degli antichi gli avrà insegnato, ma il rito non sortirà alcun effetto. Alcuni di quegli uomini prenderanno coscienza della vanità della cosa, ma altri - e forse i più - alimenteranno in sé la certezza di aver operato nel Sacro. In ogni caso tutti un vantaggio avranno tratto, cioè quello di essere persuasi, non erroneamente, alla fine, di essere operatori in una dimensione "diversa".

 Perché questo solo conta: essere diversi, ma non rispetto agli altri, quanto piuttosto rispetto a se stessi. E' facilissimo essere diversi rispetto agli altri: basta indossare un indumento un po' eccentrico, ornarsi di un oggetto inconsueto ed il gioco è fatto. E' invece difficilissimo operare questa diversità all'interno di se stessi, rimuovendo quei sedimenti che gli anni e l'attitudine costante alla pigrizia hanno lasciato stratificare. Chi pratichi una dieta alimentare sa quanto sia difficile perdere non episodicamente qualche chilo di grasso; il grasso spirituale, se così si può dire, è altrettanto difficile da eliminarsi, anche perché tende continuamente a riformarsi proprio per gli stessi motivi per cui tende a riformarsi quello fisico e che possono essere tutti considerati figli della dea Disattenzione.

 L'uomo che, con tutte le forze della sua anima, tenda alla consapevolezza costante, si immerge - indipendentemente dai mezzi che abbia usato - nel mondo della permanenza, in quell'eterno presente che trascende il tempo. Il nostro rapporto con l'universo (del quale siamo parte integrante) deve svolgersi sotto il segno della continuità: guardi il mare e senti il "tuo" mare rombare dentro di te, guardi una fontana e senti la "tua" fontana scrosciare dentro di te, guardi il cielo trapunto di stelle e senti quell'infinito silenzio animarsi dentro di te. In te, infatti, è già tutto e te ne potrai rendere fulmineamente conto se avrai fatto sì che questo sentire non sia una elegante esercitazione meditativa, ma piuttosto uno stato permanente del tuo essere. Se non ci sei arrivato, convoglia tutte le tue energie alla realizzazione di questo fine: è infatti la base di ogni processo trasmutatorio, il punto di partenza per trasformare una creatura che ama, mangia, beve, soffre e muore, in un altro essere che, pur continuando ad amare, mangiare, bere, soffrire ha capito che non morirà più. Chi ha realizzato in sé questa condizione ha, a sua volta, il dovere di impiegare tutte le sue energie (che stanno diventando illimitate) affinché altri lo seguano, sempre più numerosi, lungo la via del risveglio. "Crescete e moltiplicatevi" può voler dire anche questo.


3
BINAH (Intelligenza)

 Quando vediamo un ponte, un'autostrada, una macchina fotografica, insomma un oggetto qualsiasi uscito da mani umane (o da fabbriche umane, o da robot fatti dall'uomo) solo brevemente ci soffermiamo a pensare che ponti, autostrade e macchine fotografiche, prima di essere costruiti sono stati oggetto di un dettagliato, minuzioso e preciso progetto disegnato sulla carta; e prima ancora del disegno c'è l'idea che è zampillata dentro una mente umana. Soffermiamoci bene su questo pensiero: senza l'idea che è a monte dell'oggetto, l'oggetto non può manifestarsi nel mondo del divenire. Ogni cosa - come affermava Platone - è prima di tutto un'idea: sta alla nostra libertà di azione tradurla nella realizzazione tangibile.

 Ora appare abbastanza ovvio che sono poche le persone alle quali il mondo in cui viviamo piace al cento per cento: nell'ottica di ognuno di noi il mondo, per essere gioiosamente vivibile dovrebbe essere trasformato in un certo modo. Sul "come" le idee sono divergenti, ma pare scontato che la maggior parte degli uomini anela a vivere in un mondo dal quale siano bandite le malattie, la miseria, l'inquinamento, la violenza, la paura e così via. Una specie di paradiso in terra, in definitiva, un mondo quale si dice essere stato questo mondo prima di quell'evento remotissimo che genericamente chiamiamo "Caduta".

 Il mondo in cui oggi viviamo è quello che noi stessi, come specie, attraverso i nostri fratelli antenati, ci siamo dati. E' un mondo che noi facciamo di tutto per mantenere in vita così come è, persuasi, per la maggior parte, che ogni forma di cambiamento in meglio, o è impossibile, o è disastrosamente faticosa. Nessuno di noi sembra disposto a rinunciare ai privilegi ed agli agi che il progresso ci ha dato e ci sembra abbastanza agevole dimenticare che il progresso può nutrirsi anche di quei mali che dal mondo vorremmo vedere banditi. Gli esempi, anche sconvolgenti sono sotto gli occhi di tutti.

 Ma siamo davvero condannati all'impotenza ? In realtà sembra che la principale forma di impotenza si alimenti dalla disperazione di poter fare qualcosa, a livello individuale, per trasformare in meglio il mondo. Se è vero che dietro ogni oggetto tangibile c'è un'idea, se è vero che le idee della maggior parte delle persone sono orientate verso un mondo migliore, allora perché questo mondo migliore si realizzasse basterebbe fare quel dettagliato, minuzioso e preciso progetto (che manca) e subito dopo passare all'azione. Utopia ? Forse; ma all'origine di ogni movimento di trasformazione reale della condizione umana c'è sempre stata la spinta dell'utopia. Occorre formarsi, a livello individuale, idee chiare ed operare di conseguenza; poche idee chiare, ovviamente, e circoscritte al proprio piccolo ambito individuale, senza perdere mai di vista l'obiettivo che ci si è dati. Si è dato il caso, per esempio che otto martinisti ed un bambino abbiano partecipato insieme ad una manifestazione nazionale contro i pericoli della faciloneria nella gestione e nell'applicazione dell'energia nucleare. Di sicuro, nessuno di loro era persona che sarebbe volentieri tornata al tempo delle candele, o disposta a rinunciare a tutti i benefici del progresso; e di sicuro non erano uniti da un'ideologia politica affine. Però hanno partecipato perché oscuramente sentivano che certi princìpi, nella coscienza collettiva, debbono instillarsi, che determinate esigenze più vicine all'uomo nel suo integrale splendore debbono cominciare a prendere il sopravvento, che è necessario ad ampliare le capacità di riflessione dell'umanità intera affinché non si perdano di vista i fini operativi dell'umanità stessa, che sono quelli di una crescita armoniosa delle anime e dei corpi. Se per ottenere che questa idea si affermi è necessario mescolarsi in un composto umano che ospita scalmanati (magari turpemente manovrati) che sembrano volere tutto e subito, la scelta non lascia alternative: come ogni struttura sociale si trasforma operandovi dal di dentro, anche il mondo può essere trasformato partecipando, da dentro, alle sue inquietudini, ma senza mai perdere di vista il fine che ci si è dati. E' una scelta di umiltà e, come tale, è utile.

 Ma non è tutto. Attraverso il rituale giornaliero di catena ogni Martinista, fin dal grado di associato, ha la possibilità di operare sul mondo - in particolare sull'aura terrestre - chiamando a raccolta le forze preposte alla sua salvaguardia ed alla decontaminazione di tutte le impurità astrali che su quell'aura scarichiamo ad ogni secondo. Solo apparente è la frattura tra impurità del mondo fisico ed impurità del mondo astrale, ché in realtà, l'una è, vicendevolmente, il riflesso dell'altra, in un repugnante meccanismo di osmosi. La forza magica di una catena come la nostra può essere grande se i pochi elementi che la compongono sono legittimati, dal loro interno, ad operare nel Sacro. Quella forza, in verità, può essere enorme, ma deve trattarsi, se vogliamo usare un termine corrente, di energia "pulita". Altrimenti stiamo giocando. Ecco che, ancora una volta, il discorso torna, inevitabilmente, all'attività interiore dell'uomo e, nel caso in questione, dell'iniziato. La trasformazione di se stessi e del mondo è a portata di mano, ma occorre agire e non baloccarsi con le parole, o con i sottili "distinguo" che appartengono al Regno dell'Illusione.


2
HOKMAH (Sapienza/Saggezza)

 La vita è partecipazione. Quanto più partecipiamo - individualmente e collettivamente - al mondo degli altri, tanto più espandiamo, sui cosiddetti piani sottili, le nostre opportunità per un durevole risveglio, relativo a questa vita di incarnati ed all'altra. Una delle ultime cose scritta dall'umorista Marcello Marchesi prima di morire è questa frase: "L'importante è che la morte ci trovi vivi". Per molti è una battuta intelligente, per noi è una realtà, consapevoli come dovremmo essere del fatto che la nostra sopravvivenza oltremondana è strettamente connessa con la capacità moltiplicativa che abbiamo, da questa parte della manifestazione, di produrre sempre più vita, in noi e negli altri.

 Ciò premesso, occorre che ci si intenda sui modi della partecipazione iniziatica. Attraverso la spoliazione, noi cerchiamo di perseguire l'obiettivo del riconoscimento di se stessi: una volta che ci siamo riconosciuti - e accettati - scopriamo che siamo piccoli, ma in fase di crescita. Proprio come bambini.

 Ed è importante, fondamentale, che il bambino cresca bene, altrimenti diventa, come la maggior parte degli uomini, un adulto immaturo. Partecipare alle cose del mondo da bambini significa aprirsi quotidianamente alla meraviglia.

 E' un lavoro difficilissimo che ti fa capire che quella spoliazione che credevi di aver conseguito con grande fatica era, in realtà una chimera. Hai infatti ancora un ruolo dal quale ti devi liberare: quello appunto del bambino che si apre quotidianamente alla meraviglia. Reciti, in definitiva, e finché reciti indossi comunque una maschera, sei cioè "persona" non partecipe dell'eternità.

 Il mondo in cui siamo confitti è un caos nel quale dobbiamo cercare di mettere ordine: le sue contraddizioni, le sue sofferenze, le sue asprezze non compensano, forse, un attimo di gioia; è un inferno, si dice, ma se questo è vero, allora significa che ogni persona, per il solo fatto di essere incarnata, di essere "tornata" in questo inferno, è un peccatore che deve riscattare piccole o grandi colpe. E' vero che alla miriade di peccatori si mescolano, di tanto in tanto, grandi anime che si incarnano al solo scopo di aprire nuovi varchi al risveglio: ma questo discorso esula dalle necessità operative della maggior parte degli uomini, la quasi totalità, un misto di bene e di ignoranza, di sonno e di veglia, di speranza e di disperazione. Questo composto omogeneo e disorganizzato, privo di una spinta volitiva ed animato da moti istintuali, si suole chiamare umanità.

 Noi iniziati ne facciamo parte: occorre prenderne atto. E la maggior parte di noi non è peggiore, né migliore della moltitudine dei simili con la quale si misura ogni giorno, ogni ora, in autobus, negli uffici, sulle spiagge, alle code dei caselli autostradali. Soggiacciamo alle stesse pulsioni, alle stesse piccole manie e fobie, alle stesse antipatie e simpatie istintive e guai a noi se non ce ne rendiamo conto. Se in qualcosa possiamo differenziarci dagli altri, forse è nella consapevolezza crescente delle asperità che ingombrano la strada che stiamo percorrendo insieme agli altri; forse ci siamo dati una mèta che gli altri non si sono dati, forse abbiamo imparato qualcosa della tolleranza (anche se sovente non riusciamo ad applicarla), forse qualche volta riusciamo a capire che di questo mondo le anime sono soltanto ospiti in esilio; forse intuiamo che il mondo in cui viviamo è qualcosa di più profondo della sua immagine di superficie che già da sola tante persone sembra rendere paghe.

 Ci piaccia o no, il mondo in cui viviamo è l'unico che abbiamo. Se vogliamo che sia migliore dobbiamo, ognuno per la sua parte, contribuire a che migliori. Il contributo avviene, appunto, con la partecipazione, con la rinuncia volontaria a sentirsi parte di quell'aristocrazia iniziatica, che è reale, ma che non necessariamente tutti abbiamo conseguito per il solo fatto di aver subìto l'imposizione delle mani. Meglio, molto meglio far parte di un'aristocrazia e dubitarne, piuttosto che illudersi di essere eletti senza aver conseguito, realmente, quello stato.

 Se, con un atto di pura umiltà, riusciamo a calarci in questa realtà interiore e ad agire di conseguenza, il mondo non sarà avaro di prove illuminanti ed indicative. Occorre scegliere di aderire con distacco alle cose più sgradevoli (come, per esempio, le riunioni di condominio, di cui tutti infallibilmente parlano male, come se non fossero uomini quelli che vi intervengono) e vedere che cosa succede dentro di noi. Debbo ancora incontrare una persona che non parli con sufficienza e fastidio delle riunioni di condominio, o dell'attività degli uomini politici, o del sindacato, o dei commercianti, o dei mezzi d'informazione: è possibile che tutti questi elementi, così vitali in un quadro di partecipazione attiva, siano sempre e comunque da rigettare in blocco ? Non sarà piuttosto vero che, nel formulare certi giudizi, non facciamo altro che aderire alle opinioni correnti, senza aver avuto la forza ed il coraggio di formarcene di proprie ? E se è vero che, in certe cose, aderiamo alle opinioni correnti, se cioè siamo cristallizzati, non è il caso di rivedere un po' tutto alla luce del coraggio ? Perché di coraggio si tratta: è infatti proprio questa una delle grandi occasioni che ha l'uomo, sollecito del proprio risveglio, di rovesciare se stesso. E' proprio nel giusto approccio a queste piccole, spregevoli, necessarie incombenze quotidiane che possiamo misurare il nostro individuale cammino verso la grandezza: è di certo più facile lanciarsi, una tantum, in mezzo alle fiamme per salvare due bambini in pericolo di vita, che misurarsi quotidianamente, senza soffrirne, con realtà quotidiane meschine e riduttive. Esse sono sì meschine e riduttive, ma lo sono per chi le soffre come peso e non riesce a scorgere, in esse, le amplissime possibilità liberatorie filtrate dall'esercizio della pazienza, dell'umiltà e della spersonalizzazione autentiche.


1
KETHER (Corona)

 Gli dei sono morti, gli oracoli tacciono, gli scheletri di quei Titani che tentarono la scalata al Cielo si stanno pietrificando sotto tonnellate di roccia, le loro spade, un tempo fiammeggianti, ora sono a pezzi e divorate dalla ruggine; il mondo ha perduto tute le sue certezze e, trafitto dall'angoscia e dall'indecisione, si interroga sull'inquietudine dei tempi nuovi che sopravvengono, sul Kali Yuga, quell'Età Nera della quale ancora dobbiamo toccare il fondo. La fine del mondo è già cominciata da un pezzo: i cieli, il mare, la terra sono avvelenati e per la prima volta nella storia non è data a nessuno degli uomini che vive su questo pianeta la possibilità, se lo volesse, di ritirarsi in un luogo sicuro, per dedicarsi, in tutta tranquillità, alle meditazioni ed alla contemplazione. Sono caduti, di conseguenza, i riferimenti al passato perché quello che facevano gli antichi noi non lo possiamo più fare.

 L'agnello ha aperto il settimo sigillo dell'Apocalisse, dal turibolo che l'Angelo scaglia sulla terra "vennero tuoni e lampi e voci e terremoti": tutto questo non solo ha precisi significati, ma anche netti riscontri ad un'osservazione nemmeno troppo approfondita. I flagelli annunciati dalle sette trombe sono già tutti, e da tempo, fra noi. Se questa consapevolezza si fa strada, l'angoscia per l'avvenire, che tutti i mortali attanaglia, scompare di colpo perché c'è la Stella del Mattino ad indicare, sul nostro orizzonte, i Nuovi Cieli e la Nuova Terra.

 A questo evento ci dobbiamo preparare, ma dimentichi di noi. Noi infatti dobbiamo solo preparare le strade sulle quali procederà l'umanità futura, noi siamo gli antichi, la vecchia umanità, il passato, tutto quello che un giorno, nella coscienza collettiva dei tempi a venire, si stratificherà come tradizione. A nessuno di noi probabilmente, sarà dato di gioire, da incarnati, degli splendori che l'età nuova prefigura: questa, a pensarci bene, è un'occasione di più per dimenticarci di noi stessi e dedicarci con zelo, ognuno per la sua piccola parte, al grande lavoro di costruzione di un tempio che non vedremo mai compiuto. Morremo sul Monte Nebo, come Mosè, in vista di una Terra Promessa che non sarà nostra, ma verso la quale avremo sospinto - soltanto in nome dell'Amore - creature umane ancora non affiorate a questa esistenza. Quale migliore occasione per dimenticarci realmente di noi e lavorare, paghi soltanto dell'azione ? Di quante e di quali scorie, lavorando con sincerità in tal senso, saremo riusciti a liberare il nostro karma individuale ? Quale maggiore testimonianza di fede, di ardore, di ottimismo, di grandezza potremmo trasmettere agli uomini di domani ?

 Il mondo della forma, nel quale le nostre azioni avvengono, è così rigorosamente matematico che ben poco spazio concede ad una creatività reale, sì che, non casualmente, sono sempre in maggior numero i pensatori che rinserrano nell'ambito di un cieco determinismo tutto l'umano operare. Valori antichi cadono dal cielo senza che, apparentemente, altri ne prendano il posto. Ma anche questo sentirci stretti nella nostra quotidiana prigione è occasione di riscatto, l'unica, a guardar bene: posto che non mi è data la forza metafisica del Superuomo, attraverso la quale ogni barriera ed ogni vincolo si infrangono, non mi resta che vivere. Ma vivere come ?

 Se tutto ciò che è stato premesso è, fin qui, accettabile, sia pure come ipotesi di lavoro, anche il problema - fondamentale - del vivere si semplifica oltremodo: non c'è altro da fare, a quanto sembra, che vivere come apparentemente vivono tutte le creature animate, cioè, come si suol dire, "alla giornata".

 Ebbene, proviamoci. Proviamo questa grande avventura iniziatica di vivere oggi alla giornata attraverso cadenze filtrate da tutte le esperienze fatte, fino ad oggi, nella nostra attività spirituale; vivere senza tensioni, assecondando docilmente e con gli occhi aperti tutte le sollecitazioni che nel profondo dell'anima ribollivano e che adesso hanno la possibilità di scorrere in quel canale, sgombro di scorie, che avremo saputo preparare - se realmente lo avremo fatto - dopo anni di autoanalisi e di tensione mentale: guardate venire in superficie l'orgoglio, trasformatosi in coscienza di sé, l'avarizia, divenuta prudenza, la gola sublimata nella gioia di vivere, la lussuria, cambiata in quell'amore "che muove il sole e le altre stelle". Se è vero che ogni cosiddetto peccato capitale altro non è che l'esasperazione di una virtù da conseguire, non sembrano esserci, oggi, altre strade da percorrere oltre questa. E' così che rinasciamo a noi stessi, è così che possiamo ricrearci, è così che il nostro Bambino affiora all'esistenza. C'è un'immagine della grande tradizione iniziatica che ognuno di noi dovrebbe sempre avere davanti agli occhi dello spirito: il mago nasce nudo, poi, nel corso della sua vita, si munisce di un numero sempre crescente di strumenti; ma se vuole morire da mago, cioè da uomo che abbia realmente posto in essere qualcosa di durevole, deve spogliarsi progressivamente di tutto e restituirsi, nudo, alla madre Terra.

 La saggezza dei nostri Maestri Passati - ve lo ricordo - ha indicato proprio nella spoliazione il primo compito dell'Associato; e se quel compito viene eseguito come si deve, un grande, fondamentale traguardo è stato raggiunto e una vita che fosse consacrata a questo solo fine, già sarebbe ben spesa. Ma se quel traguardo, una volta raggiunto, diviene il punto di partenza per nuove avventure, allora il rigore della forma cade del tutto, si schiudono le porte del Cielo e l'iniziato, ormai Adepto, diviene un pontefice, cioè il costruttore di un ponte tra il mondo degli uomini ed il mondo di Dio.



DOVE PORTA IL MARTINISMO
Francesco Brunelli (Nebo S.I.I. Gran Maestro dell'Ordine dal 15/9/1972 al 19/8/1982)

Vi sono delle accuse che sovente si fanno all'Ordine Martinista e tra queste la principale è che troppo si discute e poco si opera in senso verticale come s'esso fosse una specie di teosofismo o di circolo spiritualista. Vorrei subito dire che per quanto concerne la mia esperienza e la mia conoscenza ultraventennale in questo campo, tale giudizio sommario è piuttosto immeritato. E' vero, diciamolo francamente, che in molti gruppi non viene svolto alcun lavoro, nè orizzontale, nè verticale intendo, e che molti Martinisti non sanno neppure cosa voglia dire Martinismo. In altri raggruppamenti prevale il devozionismo verso qualche Maestro passato, vedi per esempio il culto del Maestro Filippo in Francia, in altri il lavoro assume tinte ed aspetti massonici che nulla hanno a che vedere con il nostro Ordine.
Quale dunque dovrebbe essere la tipologia di lavoro di un gruppo se il Martinismo veicola qualche cosa di valido?
E la risposta è semplice:
iniziatica ed operativa, seguendo una didattica che non è quella del mondo profano.
Iniziatica quando esercita una funzione introduttrice ai misteri mediante la creazione di un uomo "nuovo" dapprima "denudato", poi "rivestito" poi messo in condizioni di vedere e di muoversi verso la Luce sino ad identificarsi con essa mediante i suoi sforzi personali.
Operativa quando determina un campo magnetico, attraverso un effettivo lavoro di catena - che ha delle regole semplici, ma rigidamente meccaniche - e non una catena diciamo... poetica, sognante, utopica (come è in realtà in certi tipi di Ordini iniziatici oggi, anche Martinisti).
Tale campo magnetico agendo in armonia con le forze cosmiche, spinge necessariamente alla realizzazione della propria reintegrazione favorendo l'ascenso e contribuisce alla reintegrazione universale.
Reintegrazione individuale e generale: i due obbiettivi, i due scopi irrinunciabili del Martinismo di tradizione.
Ricordo un lavoro di Sette S:::I:::I::: dal titolo "Meditazione sul Martinismo e sui doveri dei Martinisti" che mi fece personalmente portare a termine, sull'onda delle verità ivi enunciate, degli appunti sul lavoro esoterico che diffusi, ebbero un notevole successo.
Bene, in quella meditazione di Sette, sono contenuti i germi del senso del lavoro operativo collettivo dell'Ordine che si allinea (magari con tecniche differenti da quelle adoperate dai Martinezisti della prima ora, ma la tecnica è un mezzo e non uno scopo) e che traduce l'oscurità del linguaggio di Martinez, a quell'Opera invano tentata dal Pasqually.
Ma sulla tipologia del lavoro collettivo della nostra Comunità si parlerà altrove, qui ci limiteremo a studiare quali sono i limiti cui porta il Martinismo e se limiti vi sono.
Praticamente lo scopo del Martinismo è quello della reintegrazione individuale ed universale. Su questi scopi dovremo soffermarci, a parer nostro, per chiarire la terminologia usata e con essa la problematica che ci siamo posti. Noteremo innanzi tutto che esistono due scopi, l'uno strettamente legato all'altro e interdipendenti: il primo è la riconciliazione e la reintegrazione individuale, il secondo è la reintegrazione universale.
Questi termini sono stati usati dai nostri Maestri e scorrendo la letteratura Martinista si incontrano ovunque, essi inoltre coincidono con altrettanti termini e con altrettanti scopi dei gruppi iniziatici più riservati sia occidentali che orientali, indipendentemente dalle tecniche da questi usate.
I termini "riconciliazione" e "reintegrazione" presuppongono una scelta iniziale che l'iniziando compie, quella della accettazione puramente teorica e quindi non pratica e pertanto ipotetica delle tre differenti maniere di cominciare a considerare l'essenza dell'uomo.
Martinez de Pasqually agiva in un contesto cristiano e pertanto non poteva assolutamente che usare una didattica che partisse dall'abito culturale dei suoi adepti, Louis Claude de Saint Martin viveva più addentro in questo habitat ed accentuava tale aspetto, ma il saggio deve comprendere il reale significato delle cose attraverso i veli e le nebbie emananti dalla umanità, dalla sua cultura, dalla civilizzazione che in "quel momento" sta vivendo.
In effetti sia che si usi un linguaggio od un altro le cose non cambiano! Si tratta solo di prendere coscienza, di essere iniziati al fatto che in potenza ciascuno qui in basso, può porsi in grado di affermare "Io sono Io, Colui che è, che è stato e che sarà".
Il linguaggio Martinista è quello della "caduta", il linguaggio Kabbalista, adombrato nella dottrina di Martinez e chiaramente espresso nelle sue tecniche è quello della "emanazione".
Ambedue presuppongono un ritorno.
E' su questo "ritorno" su questa "ridivinizzazione" di una essenza degradata attraverso non importa quali o quanti "piani" o "sfere", che si pone l'interrogativo che ora non interessa più il Martinismo come dottrina, ma l'Ordine come organizzazione in possesso di una filiazione iniziatica ed agente mediante questo ed in virtù dei poteri derivanti da questa filiazione.
La domanda "dove porta il Martinismo" dovrebbe quindi essere ritrascritta così: "Quale contributo può dare l'Ordine Martinista al processo di reintegrazione individuale ed al processo di reintegrazione universale?".
Il compianto Maestro Aloysius così scrisse nel '68 intervenendo sul tema "I doveri dei S:::I:::I:::":
" La forma di iniziazione propria del movimento Martinista nel mondo è di essenza SACRALE, nel senso che l'iniziando, accetando il principio che lo impegna irrevocabilmente al duplice lavoro di integrazione individuale del proprio Io e di collaborazione al lavoro di integrazione collettiva dell'Universo e, più specificatamente, della piccola collettività ch'egli riuscirà ad organizzare attorno a se, si pone su di un terreno di azione, e di potenziale reazione, Magicamente Consacrato.
Il carattere Sacrale è gia acquisito in potenza dal profano iniziando nel momento della associazione all'Ordine... diventa fenomeno di impegno operativo al ricevimento del 3° grado le cui caratteristiche di acquisizione sottintendono il futuro conferimento della autorità sacerdotale, che diverrà effettiva con il 4° grado con l'acquisizione delle facoltà di trasmissione dei poteri, facoltà di carattere certamente sacerdotale.
...L'impegno operativo dell'Ordine nella vita, nella società, nel mondo, in via preliminare, l'integrazione della propria personalità nel più ampio dei modi e dei significati... sino al superamento della separazione e la realizzazione nel quadro generale della economia evolutiva della specie... la seconda parte dello stesso dovere: sul piano dei rapporti sociali e collettivi, è l'inserimento della propria umana personalità e capacità nella catena operativa - fenomeno e compito primigenio nelle funzioni del nostro Venerabile Ordine - ...al fine di potenziare il lavoro di purificazione e rigenerazione della Vita Umana, in senso universale e cosmico, come a noi è iniziaticamente noto... ".
Questa citazione tratta dal lavoro del Fratello Aloysius ci trova perfettamente e globalmente d'accordo.
L'appartenenza all'Ordine comporta un lavoro di progressiva sacralizzazione dell'Uomo di Desiderio (la condizione richiesta per l'appartenenza all'Ordine) che viene marcata al momento della iniziazione al 3° grado quando l'iniziando viene posto sulla Croce Kabbalistica che DEVE REALIZZARE in se stesso acquisendo la effettiva potenza di Malkuth (il regno), di Geburah (la giustizia), di Chesed (la misericordia).
Una volta acquisita la sacralizzazione, essa viene effettivamente riconosciuta con il conferimento del potere di trasmissione nel 4° grado. Ma il cammino, l'iter iniziatico è terminato?
Termina qui?
No, assolutamente. Già i riti individuali inseriti sin dal primo grado, e gli altri, fanno presagire che il membro dell'Ordine deve proseguire oltre, attraverso una sua ascesi personale, attraverso delle tecniche particolari che l'iniziatore gli potrà o no affidare e che necessariamente si basano sull'albero della vita il pentacolo a noi giunto dalla tradizione kabbalistica, ma che sicuramente trae origini dall'Egitto, dalla Caldea ecc... e che, come tale, scrive Ambelain, non ha potuto subire quelle alterazioni o quelle deformazioni cui possono andare incontro dei testi.
In questo pentacolo che esprime le differenti tappe della creazione e della incarnazione dello "spirito" nella materia e del suo ritorno alla fonte primigenia, nonchè le sfere di influenza dell'Universo sull'uomo, il Martinista o meglio l'Adepto, in virtù della legge delle analogie potrà ritrovare quelle chiavi che gli permettono l'identificazione con il SE, il suo Angelo o il suo Demone, tappa questa unica e fondamentale per la effettiva realizzazione della riconciliazione individuale e della reintegrazione universale.
I testi "Abramelin le mage" tradotto da Ambelain in lingua francese e "La Kabbale pratique" dello stesso Ambelain danno le chiavi e le tecniche.
Dove porta l'Ordine Martinista dunque?
Risponde Stanislao de Guaita: "Tu sei un Iniziato: sei uno che gli altri hanno messo sulla via; sforzati di divenire un Adepto".
L'Ordine Martinista porta innanzi sulla via, porta alla comprensione delle cose oltre il "velo", porta sino alla soglia dell'adeptato, non porta oltre, anche se il Martinismo, attraverso i suoi Autori, delinea chiaramente le mete ultime, anche se Martincz tentò di dare una via operativa, oggi impraticabile nella sua globalità come ben comprese Ambelain intorno agli anni '60.
Il Soro traccia dei quadri della tradizione occidentale interessanti anche per le loro corrispondenze ma dai suoi quadri emerge una conferma ancora che l'Ordine ha i suoi limiti sia pure indefinibili. Malgrado ciò, credo fermamente che se una sola persona ogni milione di abitanti della terra, realizzasse solo gli scopi pratici dell'Ordine e non quelli teorici del Martinismo l'itera umanità vivrebbe in una era di serenità e di pace profonda, oggi addirittura impensabile.
Voglio concludere che lo studio approfondito dei rituali di iniziazione e delle tecniche note mi fanno affermare che l'Ordine conferisce ai suoi membri:

- una iniziazione oggettiva caratterizzata dall'introduzione dell'Uomo di desiderio in un nuovo mondo ed in una nuova dimensione mediante la creazione del legamento iniziatico che termina con la trasmissione del Sacramento dell'Ordine e con la potestà sacrale di poterlo a sua volta conferire.

- La possibilità di una iniziazione soggettiva, realizzantesi cioè in virtù del lavoro e delle applicazioni pratiche dell'iniziato che lo porta sino alla soglia dell'Adeptato, sino cioè alla soglia della realizzazione ultima.
Qui finisce la missione dell'Ordine Martinista.
Tale missione si estrinseca mediante:
a) la trasmissione fisica da Iniziatore ad Iniziando delle energie eggregoriche, che avviene durante i differenti riti di Iniziazione (il legamento);
b) la trasmissione di una dottrina che è quella contenuta nei rituali e che deve essere sviluppata da ciascuno mediante una ricerca, uno studio ed una applicazione costante;
c) il simbolismo che rinserra parte della dottrina e parte delle tecniche, prima tra queste la introspezione, la purificazione, la meditazione ecc...;
d) i riti di catena (che possono essere variati in ogni momento senza pertanto comportare una variazione nella sostanza e nello scopo dei riti di catena stessi) con l'inevitabile effetto traente dell'Eggregoro e la rivelazione degli Arcani;
e) i riti individuali trasmutatori dopo la rivelazione.

Questa è la nostra risposta alla domanda: "Dove porta il Martinismo?"



INTRODUZIONE ALL'ORDINE MARTINISTA
Nebo S.I.I.

L’Ordine Martinista è l’espressione degli insegnamenti di Martinez de Pasqually, di L. C. de Saint Martin e dei suoi Maestri, di Papus, di Stanislao de Guaita e dei loro ispiratori tutti rifacentisi a quell’occultismo occidentale che affonda le sue radici nella tradizione egizio-atlantidea e che è permeato dalla saggezza esoterica proveniente da canali diversi, segnalatamente dal canale gnostico-cristiano e kabbalistico. La essenza di questi insegnamenti, contenuti in ponderose opere scritte, viene trasmessa mediante una semplice cerimonia di iniziazione rituale. Aperto agli uomini come alle donne, il Martinismo è un raggruppamento iniziatico che possiede:

una dottrina filosofica e mistica, un metodo di lavoro individuale e di gruppo, una linea di ispirazione sulla quale i membri debbono operare secondo le proprie possibilità individuali.

Gli scopi principali che l’Ordine propone ai suoi membri sono essenzialmente due:
1. — la riconciliazione e la reintegrazione individuale,
2. — la reintegrazione universale.
Il Martinista approfondirà in seguito questi scopi non fermandosi alla lettera, ma penetrando dietro la significazione nascosta dall’antropomorfismo utilizzato dai Maestri per enunciarli. I mezzi che offre per il raggiungimento di questi scopi sono individuali e collettivi, il Martinista cioè viene posto in grado di compiere sia individualmente, sia in comunione con gli altri membri dell’Ordine, il lavoro di reintegrazione. Scolasticamente — e quindi non iniziaticamente — possiamo, su tale assunto, costruire il seguente schema:
1. Lavoro individuale.
a) Scoperta della vera natura e del vero essere dell’uomo.
b) Lavoro di liberazione delle scorie che imprigionano l’uomo qui «in basso», lavoro di ordine interiore ed «operativo».
c) Contribuzione personale alla reintegrazione universale mediante la partecipazione alle operazioni
2. Lavoro Collettivo realizzantesi mediante la partecipazione attiva al lavoro di catena avente come effetti:
d) L’intercambio energetico tra gli anelli della catena.
e) L’utilizzazione delle energie singole simpaticamente agenti per il potenziamento della catena e per le operazioni di purificazione dell’aura terrestre.
Riti giornalieri, mensili, equinoziali.
Tale schema che si fonda su convincimenti personali, indipendentemente dalle Scuole, trova la sua giustificazione nello studio e nella applicazione pratica degli insegnamenti esistenti nella letteratura di ispirazione martinista. Sommariamente possiamo approfondire quanto esposto nello schema sacrificando alla chiarezza (e quindi peccando di leggerezza) l’interiore profondità degli insegnamenti dei Maestri Passati e di quelli viventi qui «in basso».
a) L’uomo, per L. C. de S. Martin, è la somma di tutti i problemi. È lui stesso un problema, l’enigma degli enigmi. Non si può comprendere l’uomo per mezzo della natura, ma la natura per mezzo dell’uomo. Louis-Claude de Saint Martin invita l’uomo a considerare se stesso e ad analizzare la realtà che avrà scoperto in tal modo. Così l’uomo scoprirà il suo vero rango e percepirà l’armonia del mondo secondo il famoso adagio di Delfo. «Conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dei!». L’uomo, malgrado la sua «degradazione» porta sempre con sé evidenti i segni della sua origine divina. Incatenato sulla terra come Prometeo, esiliato dal suo regno, quale fine si potrà proporre se non quella della reintegrazione?
b) Una volta conosciuta la sua vera natura egli non aspirerà che alla liberazione dalla prigione e dopo aver indagato sui mezzi a sua disposizione, inizierà quel lavoro di decondizionamento, di decantazione e di purificazione che lo condurrà, dopo aver realizzato il noto quadruplice motto: osare, tacere, sapere, volere, ad operare quella trasmutazione di alchimia spirituale avente come fine la strutturazione di un tipo d’uomo differente dalla umanità media, certamente ad essa superiore per evoluzione e per possibilità, «riconciliato e reintegrato nelle sue primitive» qualità e potenza. Indipendentemente dalle «tecniche» usate dall’iniziato egli potrà agire anche «operativamente». Tale lavoro che comporta la messa in azione di operazioni che, seguendo gli schemi tradizionali (purificazioni, regime alimentare, preghiera magicamente intesa, allestimento di un luogo operatorio, ecc...) e particolari rituali (segnalatamente martinezisti) apporta all’operatore che ha un cuore puro ed una fede sincera degli effetti sensibili consistenti in genere in una visione diretta di lampi e di glifi (i «passi») che rappresentano dei segnali sul cammino della reintegrazione e che confermano la validità del lavoro e la sua progressione.
c) Il contributo alle operazioni per la purificazione dell’aura terrestre avviene mediante la partecipazione attiva (come «operatore») a queste.
d) La catena martinista permette che si stabilisca un intercambio energetico tra fratello e fratello, tra fratello ed eggregore. Per suo mezzo si creano inoltre quelle energie che saranno utilizzate per gli scopi generali dell’Ordine.
e) L’atmosfera astrale del nostro globo è infestata:
1. dai pensieri negativi emessi dagli uomini;
2. dalle forze negative di esseri non corporei (sono queste forze che generano i mali dell’umanità e si frappongono alla sua rapida ascesa evolutiva: guerre, odi razziali, religiosi, sociali, di caste, di collettività, desideri egoistici, ecc Soltanto le operazioni teurgiche, veri e propri esorcismi, sono in grado di combattere questa negatività con successo. Operazioni teurgiche collettivamente eseguite hanno una forza che aumenta in senso geometrico in rapporto al numero degli operatori e, spostando anche di poco la polarità dell’ambiente «astrale», contribuiscono alla grande opera della reintegrazione universale. La catena martinista può naturalmente dedicare le sue energie positive a combattere la negatività su tutti i piani, particolare attenzione viene posta anche alle operazioni di «guarigione». Questa introduzione sugli scopi e sui mezzi atti a conseguire tali scopi è certamente carente, ma il completamento di questo schema volutamente semplice, è compito del Fratello che intraprende l’ascesa, attraverso la comprensione degli insegnamenti successivi e soprattutto attraverso la pratica indispensabile per qualsiasi progresso. Infatti non dobbiamo sottacere una Verità fondamentale, senza la quale la comprensione effettiva del Martinismo sarebbe desolatamente tradita e la verità è questa: nel Martinismo si pone come scopo fondamentale ed irrinunciabile la reintegrazione per ottenere la quale si deve giungere alla pratica trasmutatoria che in termini più correnti e comprensibili è alchimia. Alla trasmutazione si giunge attraverso la pratica (e mai attraverso la pura teorizzazione) anche fideistica, la quale mediante l’intervento dell’Eggregoro di catena permette che il «piccolo arcano» di per sé ineffabile venga intuito dall’adepto o rivelato. Il possesso del piccolo arcano naturale permette l’avviamento all’ulteriore fase di lavoro. Senza questa intuizione o rivelazione non v’è possibilità di progresso in quanto nessun essere vivente, nessun istruttore, può spiegare chiaramente il segreto. È solo l’appartenenza all’Ordine, l’applicazione della «regola» e la pratica costante che aprono queste possibilità. E’ quindi risibile qualsiasi organizzazione che si definisca iniziatica (indipendentemente dalla denominazione ch’essa assuma) senza il possesso effettivo degli Arcani e di un Collegio Operativo in grado di trasmettere ai chiamati le istruzioni relative al piccolo ed al grande magistero. Perciò ricordiamo ancora un passo del De Guaita che è da meditare profondamente: «Noi ti abbiamo “cominciato”: il ruolo degli Iniziatori deve fermarsi qui. Se tu perverrai da te stesso all’intelligenza degli Arcani, tu meriterai il titolo di Adepto; ma sappi bene ciò: è invano che il più sapiente dei Maestri ti riveli le supreme formule della scienza e del sapere magico; la Verità Occulta non si può trasmettere con un discorso: ciascuno deve evocarla, crearla e svilupparla in sé. Tu sei Iniziato: sei uno che gli altri hanno messo sulla Via; sforzati di divenire Adepto; uno cioè che ha conquistato la scienza da se stesso, o, in altri termini, il Figlio delle sue opere».



MARTINISMO E PITAGORISMO
Francesco Brunelli

Ci porremo subito la domanda se esistono rapporti tra pitagorismo e martinismo, se esistono cioè dei legami o delle identità tra la corrente che vede come iniziatore Pitagora ed il Martinismo nella sua più vasta accezione.
A leggere Papus appaiono come suol dirsi «cose grosse», leggiamolo insieme (Initiation Agosto 1898): «... La Provvidenza ha voluto opporre una corrente cristiana alla corrente pagana e di origine pitagorica che ha centralizzato una parte delle opere di diffusione iniziatica. Dalla sua creazione il Martinismo è stato l’oggetto di attacchi appassionati da parte dei vari cleri e soprattutto del clero romano, che si figura essere il solo rappresentante di Dio nell’umanità. Così si accusarono i Martinisti di essere dei ministri dell’inferno, dei maghi neri ed altre baie del medesimo genere, che non impedirono affatto i progressi rapidissimi dell’Ordine. È allora, che in un campo tutto opposto, nacque un nuovo genere di calunnie. Gli ignari settari del Grande Oriente di Francia... si accorsero che oltre al Rito scozzese che essi avevano quasi completamente annichilito, esisteva in Francia un Ordine di illuminati che metteva il nome di Cristo in testa a tutti i suoi atti ufficiali e che osava trattare i suoi avversari con educazione... Così ecco il Martinismo accusato di essere anticristiano dagli ignari del clero e di essere una creazione dei Gesuiti dagli ignari del Grande Oriente (di Francia)».
È evidente la causa emotiva della polemica che ha guidato queste righe di Papus e non è il caso di farne, per tale ragione, un processo, anche perché in questo caso Papus identifica la corrente pagano-pitagorica con il Grande Oriente di Francia che allora non era né pagano né pitagorico ma solamente anticlericale ed iconoclasta e che perciò con Pitagora ed il pitagorismo aveva poco a che vedere. Nella Massoneria è vero si trovano evidenti tracce di pitagorismo, ma non si può affermare che la Massoneria è tutta pitagorica e fuori di ogni polemica anche Papus lo sapeva!
Lo spasso fu che allora questo «pezzo» (nel 1923-24) fornì lo spunto per un attacco di Reghini che stava allora risvegliando la scuola italica e la corrente pitagorica ed un ramo di Martinisti guidati dal Sacchi, che a dire il vero non brillavano certo per intelligenza. Essi si fecero mettere fuori dalle Massonerie di Palazzo Giustiniani e di Palazzo del Gesù, auto-proclamarono la propria giurisdizione su tutto il mondo e via dicendo, pur partendo da presupposti che si sarebbero anche potuti condividere. Ed è carina la fine con cui il Reghini, buon polemista, conclude un suo articolo approfittando della «debolezza» di Papus, ecco la sua conclusione: «Ma la Provvidenza, come dice il Papus, ha fatto sorgere il Martinismo per opporre una corrente cristiana alla corrente pagana di origine pitagorica. E sia, ma la Provvidenza non vorrà mica pretendere che lasciamo libero il campo alla intolleranza cristiano-martinista, diretta da molto incogniti e poco superiori capi invisibili?».
Queste polemiche ora sono cessate da un pezzo, l’autorità del Reghini in materia pitagorica è indiscussa, lo stesso Papus (a parte la storia del Cristo che ha sempre identificato con Iod Schin Vau He, ed è errato) pone Pitagora e la sua scuola nel posto che loro compete ed è appena sufficiente leggere le sue opere per rendersene conto.
Spunti polemici a parte, Robert Ambelain così scrive nella sua opera «All’ombra delle Cattedrali»: sul frontone della sua scuola, Pitagora aveva fatto incidere queste parole: «Che nessuno entri se non è geometra». Questa sentenza ci svela una delle basi del suo insegnamento esoterico, perché noi vediamo che i suoi adepti consideravano come una profanazione e la punivano conseguenzialmente la rivelazione delle proprietà del numero d’oro e di un certo numero di altre chiavi... Martinez de Pasqually nelle sue logge e nel grado di Apprendista Eletto Cohen ci insegna segretamente la stessa cosa quando fa dire: «Quali sono gli strumenti per mezzo dei quali il Grande Architetto dell’Universo si è servito nella costruzione del Grande Tempio universale?».
Al che il recipendiario deve rispondere «di un triangolo, di una perpendicolare e di una squadra perfetta».
Ed il triangolo ebraico entro il quale si iscrivono in ritmo ed in progressione denaria le quattro lettere del nome divino Iod He Vau He, non è altro che una alterazione della Grande Tetractis delle iniziazioni antiche il cui studio intelligente porta l’adepto sul sentiero magico ed alchemico, vero sesamo aprente molte porte allo studioso paziente. «Io lo giuro per colui che ha trasmesso alle nostre anime la divina tetractis nella quale si trova la sorgente e la radice della eterna natura...». Tale è, come la trasmise Giamblico, la formula dei giuramenti d’ingresso nella iniziazione dorica.

Il Martinismo è tributario del pitagorismo sotto aspetti particolari, così come tutte le scuole iniziatiche lo sono.
Sia Martinez de Pasqually, sia Louis Claude de Saint Martin nelle loro opere hanno introdotto elementi pitagorici.
Le Forestier, il più valido studioso di Martinez, nel suo libro dedicato all’Ordine degli Eletti Cohen afferma ciò nel corso della sua analisi dell’opera di Martinez: «L’aritmetica e la geometria segrete contenute nella Reintegrazione sono lasciti provenienti dal più lontano passato. L’idea di attribuire ai numeri un valore mistico rimonta ai più antichi tempi di cui la storia delle civilizzazioni ha conservato un ricordo. Formulata filosoficamente, questa idea, afferma che l’essere è identico al numero e che il numero, nello stesso tempo, è l’essere stesso, l’elemento materiale e l’elemento formale, la causa ed il principio, in modo che, se tutte le cose sono dei numeri, la scienza dei numeri è la scienza delle cose... Questa dottrina è comunemente chiamata aritmetica pitagorica perché fu formulata sistematicamente da Pitagora, o quanto meno, trasmessa dal pitagorico Filolao, tuttavia questa denominazione tradizionale non tiene conto della questione delle origini perché gli elementi di cui fa uso questa aritmetica esoterica esistevano certamente prima dei pitagorici».
Le Forestier continua lo studio dello sviluppo della scuola pitagorica con i neopitagorici che fecero derivare dalla aritmetica mistica una geometria mistica stabilendo dei rapporti tra numeri e figure e prosegue esaminando l’opera di Giamblico, Plotino, Proclo, S. Agostino ed ammette una tradizione segreta nel medioevo che trasmetteva i segreti dell’aritmosofia soprattutto tra i costruttori che utilizzavano l’architettura come un linguaggio esoterico. Ricorda nel XV secolo Nicola da Cuma e giunge al XVI secolo in cui «l’aritmosofia conobbe una nuova voga quando gli umanisti amalgamarono le teorie neoalessandrine, con gli assiomi attribuiti a Pitagora ed i temi cabalisti, mettendosi a ricercare nei testi ebrei le idee pitagoriche e nella Kabala la vera dottrina filosofica della scrittura». Ricorda così Reuchlin, Giorgio da Venezia, Cornelio Agrippa, Giordano Bruno, il più grande pitagorico del Rinascimento Van Helmot per giungere alla fine dello stesso secolo in cui l’aritmetica pitagorica cessa di essere studiata e coltivata apertamente e si rinserra nei cenacoli esoterici, manifestando la sua vitalità quando fornirà alla Massoneria simboli e numeri sacri, il delta (la tetractis pitagorica), il Pentalfa e via dicendo.

Giungiamo così a Martinez.
Pasqually, i cui Maestri sono rimasti sino ad oggi un enigma, donde ha tratto la sua aritmosofia? Essa non è certo esclusivamente cabbalistica poiché comprende degli sviluppi che si discostano in molti punti da questa corrente.
Daremo qui qualche cenno dell’aritmosofia Cohen per coloro che hanno un poco approfondito gli studi condotti lo scorso anno dall’Ordine Martinista. Martinez, per i numeri UNO, DIECI e QUATTRO segue grosso modo il Pitagorismo. L’unità per i pitagorici era vista come il Padre di ogni numero e per conseguenza degli esseri, del Demiurgo del mondo, la radice di ogni esistenza, il principio della conoscenza e della individuazione.
Dalla Monade, dall’Uno derivano tre tipi di unità: quella Assoluta o Dio che era separata da ogni altra cosa; l’Unità-elemento che veniva considerata come inseparabile dalla cosa e l’Unità dell’Essere Reale.
Per Martinez l’Unità era un principio di ogni essere spirituale e temporale e da buon cabbalista essa è per lui incomprensibile ed inconoscibile, è l’Ain-Soph che non si può né comprendere, né esplorare con la intelligenza: egli quindi identificava l’Unità con il Primo tipo di Monade pitagorica, quella cioè Assoluta.
La DECADE di Martinez ha una importanza pari a quella attribuitale dai pitagorici, è la Forza Divina ed increata che produce la permanenza eterna delle cose in questo mondo. «Da questo nuero denario — dice — proviene ogni essere spirituale maggiore, inferiore, minore, come ogni legge d’azione sia spirituale sia spiritosa. L’addizione dei quattro numeri compresi nel quaternario, da DIECI e dalle differenti unioni di questi differenti numeri concepirai in che modo tutte le cose sono provenute...»; in altre parole DIECI è il numero perfetto ed universale perché contiene la essenza e la potenza dei numeri, infatti i primi dieci sono sufficienti ad esprimere la infinita varietà delle cose, i loro attributi e le loro proprietà. Martinez inscrive nel cerchio la cifra UNO per simboleggiare l’unione dell’Unità con la decade, del Dio emanante con il Dio emanato.
Anche il quaternario al quale Martinez fa giuocare un ruolo preminente, è una replica della Tetrade pitagorica, e così via per tutti gli altri numeri, per il Due o «diade», per il sei, per il sette. Per il Cinque Martinez si distacca dai pitagorici per ammettere con i cabbalisti che è un numero demoniaco poiché corrisponde ai cinque Angeli distruttori. Una particolare menzione merita il numero Otto che viene interpretato alla maniera egizia. Gli egizi infatti sdoppiavano i quattro elementi in maschili e femminili ottenendo l’ogdoade simbolo della forza vivificante che Martinez trasporta sul piano mistico. Per il TRE segue la tradizione pitagorica e per il NOVE da una sua propria interpretazione e non è possibile identificare la sorgente.
Anche in Martinez ritroviamo le combinazioni di numeri secondo la prassi pitagorica, mentre la geometria mistica appare piuttosto rudimentaria se si compara con quella dei pitagorici e soprattutto con quella dei neo-pitagorici.
Questo in breve l’apporto pitagorico al Martinismo di Martinez che esaminato profondamente appare rimarchevole perché funge da base, da intelaiatura alla sua teoria e perché dà delle chiavi interpretative ed analogiche senza le quali la comprensione del suo trattato appare di indubbia difficoltà. Anche la sua «Teoria dell’asse fuoco centrale» su cui non ci intratteniamo, ha degli spunti pitagorici e la ricordo di sfuggita a chi la conosce. I pitagorici infatti ritengono il fuoco centrale, la Monade prima, l’armonia dei contrari, il nodo vitale dell’universo, la sorgente del calore, della vita, l’anima del mondo, la sua quintessenza.

Louis Claude de S. Martin, il discepolo di Martinez, che abbiamo nella nostra ascendenza, non rifugge dall’aritmosofia ed il suo volume postumo «Des Nombres» ne fa buona fede. Sappiamo che S. Martin abbandonò le pratiche teurgiche del suo Maestro e si dedicò essenzialmente alla via cardiaca, tingendosi poi marcatamente di cristianesimo. Questa è una necessaria premessa per comprendere l’opera di S. Martin.
Bene, il libro è frutto di sue personali meditazioni e non è neppure stato ricorretto dall’Autore; ora dobbiamo tener presente che la meditazione sui simboli è una tecnica raccomandata in tutte le scuole iniziatiche e che la meditazione sui numeri è importantissima, perché il numero come simbolo è in grado di dare suggerimenti ed illuminazioni maggiormente «astratti» poiché non evoca assolutamente alcuna rappresentazione fisica.
Nel volume è evidenziabile una influenza pitagorica anche là ove Saint Martin tenta, in base alle sue speculazioni, di correggere i pitagorici. E questa influenza è un fatto estremamente naturale perché il pitagorismo è connaturato con la scienza tradizionale e nessuna tradizione può esimersi dal considerare il numero proprio come lo consideravano Pitagora ed i pitagorici.
Nel volume comparso postumo, quindi senza la sua autorizzazione, S. Martin sviluppa una originale interpretazione dei numeri che in qualche caso si discosta da quella dei pitagorici ed in tal’altro contrasta, a sostegno di una interpretazione in chiave cristiana dell’aritmosofia. Il Reghini, sempre attento e mordace, non si fa certo sfuggire l’occasione per addentare chiunque si discosti dalle sue interpretazioni e pertanto S. Martin è anche lui regolarmente servito a proposito del numero sette.
Sentiamolo perché merita.
« Il numero Sette è l’unico numero della decade senza padre e senza madre e per questa ragione era paragonato e consacrato a Minerva... dea della Sapienza... di (quella) Sapienza divina che non appartiene al mondo della generazione, essa è trascendente, olimpica, umanamente inconcepibile».
Il Sette infatti è un numero che, entro la decade, non è generato per moltiplicazione da nessun altro numero ed a sua volta non genera entro la decade ed è per questo che si dice che è senza «madre» e «vergine».
« Louis Claude de S. Martin... si sbizzarrisce nei suoi scritti e segnatamente nell’opera postuma “Des Nombres”, in un suo sistema di mistica cristiana dei numeri e farneticando devotamente non si perita di affibbiare ai pitagorici dei supposti errori per poterli loro rinfacciare ad esaltazione della propria fede... egli afferma per esempio che: “Pitagora ed i suoi discepoli si sono sbagliati quando hanno detto che il Sette è senza padre e senza madre” e giustifica tale sentenza con la bella ragione che “il numero Quattro è il padre e la madre dell’uomo che, in effetti secondo la genesi, fu creato maschio e femmina per mezzo di questa potenza settenaria contenente tre e quattro”. Ora Pitagora ed i suoi discepoli non hanno mai detto nulla di simile ed il Filosofo sconosciuto fa tutta una confusione tra quello che narra il Vangelo a proposito di Melkisedek che era senza padre e senza madre, ed il fatto che per i pitagorici il sette era un numero sacro a Minerva perché, come Minerva, non sacro e non generato!».
A parte quest’unica perla, che se ve ne fossero state altre il Reghini non le avrebbe certamente risparmiate, il libro postumo di S. Martin è di particolare interesse perché dimostra (anche con la sua interpretazione cristiana e proprio per questo, a mio giudizio) l’universalità della intuizione pitagorica dell’aritmetica.
Questo interesse emerge anche dal fatto che le massime libertà nella interpretazione del simbolo debbono essere salvaguardate contro ogni dogmatizzazione, perché se la speculazione ed i risultati della meditazione e della illuminazione sono validi, la significazione ultima del simbolo resta e deve restare sempre eguale alla sua essenza, cioè a se stessa.
Così, passo passo, tra storie e richiami, dal nostro fondatore Martinez siamo giunti, passando per S. Martin e Papus e Ambelain, al Martinismo contemporaneo.
Cosa resta del pitagorismo oggi nel Martinismo?
Vi sono diversi elementi nella tradizione Martinista in nostro possesso di sicura matrice pitagorica e che per essere compresi richiedono un ricorso al pitagorismo.
In primo luogo il «modus iniziandi». La trasmissione dei segreti e del «sacramento dell’ordine» avviene da uomo ad uomo, così come avveniva nel pitagorismo; anche se vi sono presenti altri membri dell’Ordine, l’iniziazione è un qualche cosa che avviene tra Iniziatore ed Iniziando. Nel Martinismo non v’è bisogno di un luogo appositamente riservato per le iniziazioni, esse possono aver luogo al riparo o in piena aria, sulla cima di un monte o sulla sabbia di una spiaggia, ed è proprio questo modus, come è noto, che ha permesso alla corrente pitagorica sia di propagarsi, sia di perpetuarsi attraverso lo spazio ed il tempo.
In secondo luogo il «Silenzio», il «Segreto». E qui è inutile dilungarci.
In terzo luogo simboli e numeri.
Vediamo di elencarli, ciò è sufficiente dopo un anno di studio sul pitagorismo:
L’Associato è posto davanti all’Unità ed al Ternario.
L’Iniziato è posto davanti al binario ed al Pentacolo dell’Ordine (che contiene in sé leggi e numeri abbraccianti la decade) ed al Pentalfa. A lui si domanda: «Quali sono i temi delle vostre meditazioni?» e l’Iniziato risponde: «I simboli, le lettere, i numeri, le figure geometriche chiamate pentacoli».
Il S.I. viene posto di fronte ad un grosso problema che può risolvere solo mediante la chiave pitagorica e martinezista e dalla sua risoluzione dipenderà la sua liberazione ed il passaggio dal piano quaternario ad altro piano. Ma di ciò è d’uopo tacere!